Arti liberali e diritto dell’individuo in F. T.Marinetti

L’almanacco, strumento di una scena che si tramanda in forma di Adagia, continua ad essere probabilmente, l’unica letteralità di una strategia della cronaca d’atmosfera. Nel demone del proverbio si consuma, non da un giorno, il più probabile impegno di una tradizione umile quanto impetuosa nella sua giusta e necessaria sibilla. Questo è lo spettro ottico che vorrei esporre per gradi, l’aspetto costante della fondamentale super tristitiam di F. T. Marinetti, il ritratto, costantemente rimosso, di Marinetti homme de droit.

L’adesione ad un’ascesi nell’esistente, infante stoicamente sospeso, l’educazione all’esercizio ciclico della misura che libera e porta ad esodo, sono da sempre fondamento di ciò che vien detto politico. L’ apxH del politico consiste nelle arti liberali, demo d’apprensione più che d’espressione, demo non certo da oggi definito nelle tre categorie pratiche: grammatica, geometria, musica. In questa radice si reperisce, costantemente, un essere che calcola ed è calcolato nell’estensione delle facoltà, suo elementare e naturale dominio, quindi diritto.

Lo studio delle arti liberali aderisce al principio di agenda, stato di lenta e continua riconoscenza verso un’armonia paterna. Magnitudine vissuta come res, tradizione della filosofia stoica come sapientia, demo in cui dirigere il moto animale, lasciarlo correre, saperlo temperare col freno dell’astrazione che descrive il dominio degli affetti trascorsi e ormai depositati in semplice sentimento..

“Res tradit non verba”, in questo l’educazione del liberum. La custodia di una dinastia genealogica cui corrisponda la res in una trama nuova e sottile (anche se brutale) di verba, fu il senso di quella riconoscenza di liberi verso i padri. Ripenso allora alle scene delle lotte maestose di Erasmo e del cardinal Fischer in Europa per affermare il liber arbitrium, alle Pensées di Pascal, al Dictionaire bistorique et critique di Bayle, all’Emile di Rousseau, all’enorme numero di individui che confessarono la condizione di grazia e di superiorità della libertà di opinione.

Augurandomi di trasmettere res et non verba del futurismo di Marinetti, comincerò da un libro. Georges Sorel[01] introduce alcuni suoi articoli denunciando, nel 1907, “le regole applicate dai fabbricanti di libri di scuola” che obbligano ad esporre in forma claire la scienza, rendendola molto più semplice di ciò che fu per i loro padri. Egli ci spiega come “Bergson fosse atterrito da una scuola i cui allievi hanno più fiducia nelle formule accettate dalla maggioranza” e quanto in tal modo “si scarta dai loro spiriti ogni preoccupazione metafisica e li si abitua a non desiderare una concezione personale delle cose”.

Alfred Jarry, padre e figlio del famoso père Ubu, filologo omerico che fuse nella sua epica marionetta tutta la res possibile, scrive nel 1907, che “la letteratura fu la rivelazione della generazione nel 1892”[02] “rivelazione près du Pantheon ove questi futuri normaliens, avocats, voire of ficiers... s’informavano di greco da M. Poyard... che aveva ben a mente Aristophane o di filosofia, annotando i corsi, preziosi, di M. Bergson che improvvisava davanti a questi adolescenti, s’éveillant au serieux, la sua teoria du Rire”. Jarry ricorda la sua “generazione, ignorante precedente la nascita del Mercure de France’, tra un Nietzsche tradotto in provincia nel 1889 da M. Bourdon, ad uso di uno scandalo grottesco dei professori della Sorbona e l’influenza di quei veterans de rhétorique’ intenti a tradurre Horace, Anquetil, Hugo o il Parnasse”. Jarry rileva inoltre l’eccezionalità di Mallarmé “l’homme est un animai armé” e il suo incontro con Marcel Schwob à l’Echo, ricordando “il rez-dechaussée” della Bibliothèque Sainte-Geneviève. “Ed è in quei tempi — scrive Jarry — che la rivelazione ebbe luogo. Il versetto dell’Apocalisse non è per l’occasione troppo magniloquente: Le del se replia comme un livre qu’on roule. Era veramente una foglia d’autunno accartocciata, il sipario di un passato morto che si risollevava, per non cadere mai più, su di un teatro inatteso. Che nomi! Verlaine, Mallarmé, Rimbaud, Laforgue, Lautréamont, Tailhade... Gustave Kahn che portò il bonnet du vieux dictionnaire delle rime, facendo nomade il palazzo del verso...”. Questa generazione combatté frontalmente le istituzioni scolastiche e universitarie armandosi di uno studio sottile quanto implacabile, nobile e solitario. Tra queste iles rivedremo, molto più tardi, il Robinson [03] Valéry.